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Per una strana serie di casi, o di cause, o di casi nati da cause, ti ritrovi davvero più là, in quelle piazze, fra quelle persone. Per motivi e in tempi diversi ora vedi un'altissima cattedrale e sei in piazza Petar Preradovic, a Zagabria; ora vedi la Sava che confluisce nel Danubio, e sei nel parco di Kalemegdan, nella parte alta e vecchia di Belgrado, fra le mura di un'antica fortezza, costruita su una roccia calcarea il cui colore pare abbia ispirato il nome della futura capitale serba (Beograd, beli: bianco, grad: città). E poi Fiume, Zenica, Podgorica, Novi sad, Nis, Vrnjacka Banja e così via. Tutte quelle e molte altre piazze e statue e chiese, ti può capitare di vedere. Chiese tante, perché tante sono le religioni. Te ne accorgi facilmente quando passeggi nella Bascarsija, a Sarajevo e ti capita di passare da una chiesa cattolica a una ortodossa e da una moschea a una sinagoga, in soli cinque minuti.
Ti può capitare e infatti mi è capitato. Ed è stato un privilegio grande e inaspettato.
Ma abbandoniamo, per adesso, quelle piazze e statue e chiese costrette ancora ad essere figlie di un Europa minore, a metà strada fra l'oriente e l'occidente, legate al primo e rivolte al secondo, anche se da questo troppo spesso ignorate e sottovalutate e rifiutate, e torniamo in Istria, a Piran - Pirano. E, scusami, ma è necessario che io rientri nei miei panni, e forse è meglio anche per te.
E' il giorno libero e sono in macchina, alla frontiera tra Croazia e Slovenia, di ritorno da una bellissima gita a Pola. Siamo in quattro: io al volante, al mio fianco il regista e scrittore Goran Vojnovic (sloveno, di padre bosniaco, di Visoko), e dietro l'attore Moamer Kasumovic (montenegrino ma vive a Sarajevo da molti anni, musulmano) insieme a Sanja Popovic (attrice e conduttrice serba).
Siamo alla frontiera ed io sono già pronto a presentare i quattro passaporti, di quattro nazionalità diverse. La guardia di dogana slovena, però, fa uno strano sorriso e un cenno con il braccio, come a farmi proseguire. Io, sorpreso, dopo essermi quasi fermato accanto a lui, ringrazio con la mano e faccio per ripartire. "Stop!" grida lui. Io inchiodo all'istante. Lo guardo, si avvicina al finestrino e mi guarda anche lui. Mi chiede qualcosa in sloveno. Io, in inglese, rispondo che non capisco. Impassibile, con lo sguardo fisso su di me, mi chiede ancora qualcosa, sempre in sloveno, sempre con lo stesso tono. Io non posso fare altro che ripetere ancora una volta, in inglese, che non ho capito. Nel frattempo, dal sedile di fianco al mio, Goran inizia a spiegargli qualcosa, ovviamente in sloveno. Forse gli sta dicendo che sono italiano, che avremmo dovuto fermarci, ma ci sembrava che ci avesse invitato a passare oltre. Quindi il doganiere inizia a recitare un monologo, sempre in sloveno, nel quale riesco a cogliere spesso la parola "italiensko" o "italijan" e anche se sta parlando con Goran, continua ad avere lo sguardo appiccicato su di me. Ovviamente non capisco niente, ma di sicuro non usa parole carine. - Where I wrong? - bisbiglio ai miei compagni di viaggio, nel mio inglese spontaneo e sconnesso. Qualcuno, da dietro, mi fa cenno di lasciar perdere. Forse ha ragione. Meglio non indagare. E invece no, io voglio sapere. Ascolto con attenzione. "Slovenia, Hrvaska, Srbia, Bosna" dice lui, insieme ad altre cose che non saprei dire adesso. Sanja mi dice che si sta lamentando degli italiani, di tutti gli italiani, perché non sanno distinguere i paesi dell'Ex Jugoslavia l'uno dall'altro. Non solo, dice che siamo così ignoranti da metterci in mezzo anche l'Albania. Questo l'ho capito perché improvvisamente ha parlato in inglese. Sempre guardando solo me. Dice che non conosciamo, che abbiamo voluto dimenticare i nostri legami e le nostre responsabilità sul popolo albanese. Allora per un lungo istante provo a pensare all'Albania. Cerco delle immagini e mi appaiono davanti tutti quei pescherecci e quei gommoni lungo le coste pugliesi, scenario straziante dell'esodo degli anni novanta. Tutto qui? E poi cosa? Mi sforzo, e qundi cerco ancora: Albania, Albania, delinquenza, droga, violenza, un ragazzo che spezza una bottiglia su un tavolo e la punta in faccia a un cinese in piazza Mercatale a Prato, coltelli e cacciaviti in tasca, una prostituta bionda con una giacca rosa, fumo, ashish, cocaina, un gommone pieno di ragazzini che attraversa l'Adriatico, una mamma che vende un rene per pagare la scuola ai suoi bambini, un motorino rubato, un gruppo di muratori sporchi, con mani enormi, che bevono birra e ridono e mangiano un panino polveroso in pausa pranzo in un cantiere, immagini di bunker, di case distrutte, una macchina che passa con lo stereo a tutto volume, di nuovo una prostituta, di nuovo uno spacciatore, un finestrino rotto a una macchina in sosta. Una bandiera rossa con un'aquila nera a due teste. E poi il Kosovo. Anche quello mi viene in mente. Ma è tutto qui. Non mi viene nient'altro. Eppure ci sono anche stato in Albania, ma niente. Solo il triste epilogo della storia. E quasi non faccio caso di aver dimenticato di leggere il prologo e lo sviluppo drammatico.
Niente di niente che mi rimandi a eserciti romani, o ai più recenti plotoni dei nostri nonni, i quali di romano avevano ancora il saluto, che sono passati di lì lasciando molte tracce.
Certamente non siamo gli unici responsabili, figuriamoci, ma in questo momento non vedo alcuna differenza tra me e mia zia.
Guardo quest'uomo in divisa verde che parla ancora al mio finestrino. Penso che in fondo abbia ragione, noi italiani siamo proprio così. Ma abbiamo anche una grande virtù: lo sappiamo.
E quindi ora mi ribolle il sangue. Che cazzo vuole da me? Cosa devo fare? Ha ragione, l'ho già detto, ma non è simpatico. Allora decido che non vale la pena continuare e con un sorriso davvero idiota stampato sulla faccia gli dico, non senza un pizzico di humour, una frase che sarebbe poi rimbombata nel tempo, dentro di me, come una accusa e una difesa al tempo stesso nei confronti degli italiani: "Yes...Slovenia, Serbia, Bosnia... for me it's the same...Jugoslavia...it's the same..." e con un cenno con la mano, finito il controllo dei passaporti, lo salutiamo, "Dobar dan!".
Finalmente possiamo ripartire. In macchina scoppiano tutti a ridere per quello che è appena successo. Ma ridono anche di me. E della mia incoscienza, mi dicono. E tutti e tre si divertono a farmi presente che quello che ho detto, sarebbe saggio non ripeterlo più, soprattutto alle frontiere. Non si sa mai. E ridono ancora. E rido anch'io. Ma da qualche parte, dentro di me, anche se la mia provocazione aveva fatto centro, da qualche parte, per un attimo, ho sentito una puntura, come se una zanzara fastidiosa avesse fatto centro anche su di me. Credo di avere iniziato ad amare troppo, in modi e misure diversi, questi paesi, per non sentire il peso di una stronzata come quella. "It's the same". Ma so anche che mi è stato detto troppo poco di quella e di chissà quante altre parti di mondo. Qualcuno ha preferito così, e quindi non è solo colpa mia.
E poi, l'ho detto poco fa, all'inizio: da lì, da Prato, non è possibile capire niente.
In macchina, intanto, continuiamo a scherzarci su. Voglio credere di non avere detto niente di sbagliato. E anche se so che certe affermazioni possono fare perdere la ragione a qualche squilibrato, sono sicuro che lo sloveno, la serba e il montenegrino che sono in macchina con me, e chissà quanti altri milioni di persone dei loro paesi, preferirebbe che fosse davvero ancora "the same". Tutti insieme. E forse anche mia zia lo preferirebbe.
Francesco Borchi