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La mattina ci tranquillizzano : i cori di sirene non promettevano bombe, venivano dalle fabbriche. Qui si fabbricano madonnine di gesso, business diurno per altri costruttori, devoti o no. Sembrerebbe che a Medjugorie fossero i fornai a impastare le madonnine (noti in tutto il mondo per lavorare di notte).
Caricati sui pullman, via per dirupi verso Mostar, divisa in due, croata e bosniaca. Da Mostar ovest ci si spinge verso la zona musulmana. Si varca un ponte di assi, al posto del millenario ponte di pietra buttato giù dalla guerra. Pencola peggio della passerella di mani “beate” che oscillavano sotto i nostri piedi quando siamo andati in gita sulle nuvole. Tiriamo a diritto, con gli occhi fissi su tre montagne dirimpetto: di qua ci spiano i croati, di là i bosniaci e in mezzo stanno appostati i serbi.
Si ostentano candide magliette sul genere “Mirate al petto!”, con un pollastro al centro che esibisce un ciuffo di rosmarino nel becco. Soltanto un mistico visionario scambierebbe il rosmarino per un ramoscello di olivo e il pollo per una colomba. Mantengo un’apparenza spavalda mentre mi raccomando alla Madonna di Medjugorie.
Dal ponte si penetra nel cuore di Mostar e della Bosnia, in una desolazione schiarita dall’azzurro-primavera degli automezzi Onu mischiato al colore autunnale delle divise militari, fra case distrutte e strade stellate, strade trapunte di squarci a forma di stella, come se in una notte stregata di San Lorenzo le stelle si fossero staccate dal firmamento precipitando sulla terra.
La poca gente rimasta esce a stringerci la mano, indifferente alle magiche crepe sul selciato, ormai avvezza a quella pioggia di stelle cadenti che si stampano nel terreno e hanno il nome di granate. Le donne piangono, i bambini s’infilano in mezzo agli strani turisti di pace che siamo noi.
Sostiamo presso la targa in memoria dei giornalisti della Rai caduti sul campo. Anch’io cado in un campo, nonostante la classe con cui un dinamico “beato” porta due zaini, il suo e il mio. Cado fra gli scoscendimenti del terreno e i gerani sparsi in una profusione di croci, tutte con la stessa data, tutte della stessa guerra.
Su per tornanti chiusi fra le rocce o sospesi sui precipizi, si parte alla volta di Kisjelak, col naso appiccicato ai vetri del bus, in deroga alle avvertenze dell’istruttore di tappare i finestrini con gli zaini, promossi a baluardo di granate errabonde. Siamo curiosi di vedere se una piroetta dell’autista non ci scaraventi nel verdeggiante strapiombo che lui continua a rasentare con spensierata caparbietà.
A Kisjelak mettiamo radici sotto il comando croato. Ultima frontiera conosciuta.
Dopo, ci aspetta “la terra di nessuno”, due chilometri e mezzo di strada costeggiata di mine, attraverso campi altrettanto fioriti di ordigni che si nascondono alla vista come timide viole. In fondo alla terra di nessuno comincia la Repubblica Bosniaca dei Serbi. Farnesina, ambasciate, comando militare croato sono una lega di “no” al chiodo fisso di don Albino di andare in braccio ai serbi giù fino a Sarajevo e lì piantare una tenda dove trascinare un serbo, un croato e un bosniaco anche a calci, anche per un solo minuto di “pacifica” convivenza.
Si bivacca con acqua diuretico-lassativa, si scambiano saluti con i convogli della Caritas e dell’Onu, bighellonando tra coprifuochi, colpi di mortaio e scrosci di “bandiera rossa la trionferà” del comunista che si è preso una cotta per don Albino.
Il nostro affascinante leader celebra la messa bianco-vestito in stola arcobaleno a un tavolo di plastica e fa un’eucaristica colazione inzuppando nel vino un pezzo di pane raffermo. Il sovversivo innamorato si limita a gorgheggiare le sue strofe terrene sull’ultimo accordo di “filate, la messa è finita” intonato da Don Albino.
L’unico diversivo è la pistola puntata al petto di padre Maurizio, francescano casual, in camicia scozzese e clarks. Gliela punta più volte un croato di guardia al confine di Kisjelak, seccato dalle sue insistenze di voler passare in terra serba con tutti noi al seguito. Una pistola al petto gliel’avrei puntata anch’io a padre Maurizio.
Molti prodi Anselmi (il cinquanta per cento dei “beati”) invidiano Mario Primicerio, il sindaco di Firenze, al quale, giorni addietro, hanno sparato davvero. Eccitati dalla promessa dei serbi di mitragliare anche noi, i prodi vogliono forzare il blocco, calare su Sarajevo dal Monte Ingman, proprio dove hanno fatto fuoco sul sindaco, il che può avere il suo charme se si viaggia dentro un carro armato come il sindaco. Le “beate” singhiozzano, sull’orlo di una crisi di nervi…
Don Albino è rapito dal prezzo che il cinquanta per cento dei “beati” è disposto a pagare ma, per quanto estatico, rimane immobile, con gran refrigerio del restante cinquanta per cento di beatitudini.
Trascorriamo il ferragosto a stampare l’impronta delle nostre chiappe sull’asfalto bollente, di faccia al comando croato, dove una sentinella ubriaca sventola la bandiera che alcuni valorosi “beati” le hanno messo in mano: Mir, Paix, Peace, Pace.
Moreno Locatelli
1 comment:
davvero i nostri piu' grandi complimenti carlotta.. per trovare una narrazione cosi' fantastica dobbiamo risalire ai monasteri del kosovo di umberto li gioi
se mettete il nome in alto a sinistra nella ricerca automatica trovate i suoi post
grazie di questo grande regalo carlotta !!!!!
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