Tuesday, July 26, 2011

Dieci milioni di serbi a Cuba


Questo post è scaturito da una discussione in face book e .. certe volte... non sò più che dire.. quindi taccio.. ad ognuno il suo pensiero.. io cedo le armi !!!

Report RAI3 Se la democrazia è esportabile 1/3

Saturday, July 23, 2011

Padre Giovanni di Acquaformosa. Seconda parte


Padre Giovanni è nostro amico da più di due anni ed è veramente una cara persona !!!
Vive in Calabria e tutti voi sapete che in Calabria c'è la comunità Arbëreshë ovvero la comunità di origine albanese che si è insediata anni addietro nel nostro paese.
Adesso Padre Giovanni ha fatto molto bella la sua chiesa.


Il sito di Padre Giovanni è meraviglioso : Arberia ortodossa
Il nostro primo post su : Padre Giovanni

Thursday, July 21, 2011

Il racconto di Carlotta. Seconda parte


Continua da qui

Dopo le manovre in parrocchia ci aspettava almeno un po’ di guerra. Va bene, una certa gioia di vivere non guasta; qualche giorno fa i serbi hanno bombardato Dubrovnik…
Ecco sopraggiungere i poliziotti a toglierci dalla testa lo sconforto di essere sbarcati sulla Costa Azzurra. La nostra sfilata è illegale, non l’ha autorizzata nessuno. Arrestano il reverendo leader dei “beati”, don Albino. Lo scarcerano quasi subito, ma non per restituirlo alle nostre braccia tese. Lo trascinano presso la radio locale a giurare di non esser venuto in Croazia a spargere zizzania. Colpa dei volantini istigatori di pace, che don Albino ha stampato in lingua serba, e ora siamo in mezzo ai croati. Carestia di traduttori, si scusa il beato pacifista. Bella scusa là dove serbi e croati se le danno di santa ragione!
Tappa dalla Madonna di Medjugorie, terza nella classifica delle Madonne che hanno scelto di mostrarsi all’infanzia, quella delle fasce indigenti. L’infanzia dorata non merita apparizioni celestiali: le bastano e avanzano le visioni terrene dei propri comfort.
La Vergine, in bella vista, risplende all’aperto. Intorno a lei, oltre che di luce, l’aria è satura di parole e musica. Dalla vicina chiesa un megafono diffonde messe no-stop. Un comunista, toccato dalla Madonna, si lancia in un’ardente dichiarazione di passione e di fede a don Albino.
Si mangia e si dorme in un tendone monolocale con panche e inginocchiatoi a uso e consumo di frati senza pretese in materia di sale da pranzo e camere da letto.
Genuflessa, tiro fuori il formaggio. È andato in estasi anche quello. Era un cacio di legno, di un bel giallo carico. Si è trasfigurato in una molle scamorza cadaverica. Commossi dal prodigio, i “beati” compagni di viaggio mi dispensano le loro provviste, in particolare le marmellate di una supermamma con sei figli, che fra le granate di casa e quelle della ex Jugoslavia ha optato per queste ultime.
La sera, coricata più o meno a mo’ di San Francesco, non riesco a mummificarmi nel sacco a pelo. Benché la situazione non abbia nulla di erotico, mi divincolo come un serpente in amore. Lo spettro di Tutancamen, o il suo sosia, si alza da una bara e mi suggerisce di levarmi le scarpe. Mi avvolgo nello scialle della nonna, stretto sul maglione da gran sera in Alaska; rosicchio gallette invece di dormire. Un “beato” si rivolta nel sonno con tutto il suo feretro, arrotando i denti, assediato da incubi di gallette in via di frantumazione.
Spira una zefiro polare dal tendone spalancato sul silenzio di un cielo solcato di quando in quando da cori di sirene.
Per sei ore confondo la Madonna illuminata con lo spuntar del sole.
Fine seconda parte...







Prosegue qui

Saturday, July 16, 2011

Djiana Pavlovic. RAI3 a Cominciamo Bene


Siamo senza parole davanti alla bellezza, alla dolcezza e alla cultura della fantastica Dijana Pavlovic.
Complimenti senza fine !

Secondo il rapporto 2011 di Amnesty International “In Italia discriminazioni contro rom e migranti e clima di crescente intolleranza anche verso gay e trans”.
Ci offende questo rapporto o dobbiamo riconoscere che in Italia le discriminazioni sono tante? Le donne sul lavoro hanno gli stessi trattamenti degli uomini? Uomini e donne di altre religioni ci fanno paura? Le persone con handicap sono tutelate? Esiste parità di trattamento verso gente di altra razza o origine etnica?
In studio Vladimir Luxuria, l’attore Ferdi Berisa, il giornalista Francesco Palese e le attrici Dijana Pavlovic e Antonella Ferrari.

Dijana Pavlovic - RAI3 * Cominciamo Bene * 12 Luglio 2011
Jos Dijana Pavlovic
Dijana Pavlovic
Intervista a Dijana
Dijana Pavlovic per "Dosta!"
Dosta
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari - Bertolt Brecht

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali,
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti,
e io non dissi niente, perché non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me,
e non c’era rimasto nessuno a protestare.....

Thursday, July 14, 2011

Il racconto di Carlotta. Prima parte





Sapete bene che qui piovono solo favole, ma qualche volta piovono delle favole molto particolari ! Carlotta è una di queste. E' capitata per caso non molti giorni fa, ma ci ha fatti subito innamorare d'immenso ! Il suo racconto è fantastico.
Colgo l'occasione per raccontarvi una storia vera che non abbiamo ancora pubblicato.
La notizia c'è arrivata da un testimone e riguarda un convoglio di circa 12 camion che era partito da Sarajevo per l'entroterra bosniaco. Il convoglio era preceduto da un carro armato Onu. Ogni 20 km un commando di banditi fermava l'ultimo camion, costringeva l'autista e il passeggero a scendere e a continuare a piedi, rubava il camion e scappavano nella direzione opposta al convoglio di aiuti umanitari. Quando c'è stato solo più un camion, i militari hanno parlato un po' tra loro e poi hanno deciso di scaricare gli aiuti umanitari a terra e far salire sul camion tutti i volontari con qualche provvista di farina e zucchero che si poteva lasciare sul camion. Così.. all'enclave sono arrivati circa una ventina di persone affamate che hanno peggiorato in maniera decisiva le condizioni di vita dell'enclave già sofferente. Tutto accadeva in Bosnia nel 1995.


Il tour “Beati i Costruttori di Pace”, esclusiva confezione clericale di probe intenzioni verso un mondo di cittadini e non di vittime, ha programmato una vacanza in Bosnia: tappa di ferragosto a Sarajevo. La Jugoslavia è ancora teatro di guerra, un eccitante per chi in guerra non sta più da mezzo secolo, desiderabile come un allucinogeno per chi aspiri a migrare da vacanze borghesi, stesso cielo, stesso mare. Anch’io sono stufa di acque lisce come l’olio e di cieli sempre blu.
Alcune care persone a me vicine si coalizzano per bardarmi di sarcofago da mummia (modernamente detto sacco a pelo), gommapiuma da spiaggia elevata al grado di materasso di sopravvivenza, zaino da scolaro modello, marsupio antiscippo, giubbino color giallo-cedro-del-Libano, omaggio della Cassa di Risparmio, vagamente somigliante a una giacca a vento, micro-pila multiuso: il nemico non ti vede e tu non vedi il nemico neanche se fosse un carro armato, catarifrangente antikiller-strade di notte.
Un secondo affettuoso nucleo di miei simpatizzanti, attenti lettori delle istruzioni di viaggio prodotte dai “Beati Costruttori di Pace”, mi procaccia antibiotici a largo spettro, disinfettanti per acque da colera, bende stretch, garze, ginocchiere, gallette ricordo dei fanti italiani (prima guerra mondiale), pane nero ricordo dei soldati tedeschi (guerre mondiali 1 e 2), formaggio duro da emigrante formato XIX secolo.
Su mia personale ispirazione, ficco nello zaino lo scialle della nonna che abitava in una ghiacciaia, un maglione da gran sera in Alaska e una masnada di profumi pestiferi quanto basta a sbaragliare fragranze corporali da carenza d’acqua e sapone. Unico gioiello, una borraccia girocollo verde smeraldo.
Dopo aver messo K.O. nei corridoi del treno un congruo numero di passeggeri che hanno osato scontrarsi col mio rimorchio da viaggio, raggiungo la parrocchia di San Lorenzo, punto di raccolta nei paraggi di Bologna. Qui si svolge l’addestramento alla villeggiatura bosniaca.
Tre giorni di manovre. La prima s’intitola “Passeggiata sulle nuvole”, un day-dreaming. E come in un sogno ad occhi aperti, vengo issata a mezz’aria per andare a spasso sopra un ponte di mani intrecciate, quelle dei “beati” compagni di vacanza che stanno lì sotto a farsele pesticciare, la faccia appannata da una cristiana rassegnazione o illuminata dalla strazio nell’aver fede nel prossimo a tutti i costi. Una fiducia demenziale nel prossimo è, appunto, il target della passeggiata sulle nuvole. Si tratta di traballare lungo una passerella di mani mosce.
Dopo, mentre gli altri contano i moncherini, io mi accaparro il letto del prete.
Sveglia alle tre di notte. Ordine di uscire all’aperto, mano nella mano. Non m’illudo di danzare al chiaro di luna, ma chissà… Il ballo c’è, senza musica, quello di San Vito, a rotta di collo in catena e occhi bendati nelle tenebre. Via, sempre tenendoci per mano, finché il “beato” davanti a me, al galoppo, intanto che io mi concedo un leggero trotto, non mi sgancia in una buca.
Stop all’alba. Qualcuno mi leva dalla buca. Succinta comunicazione a una torma di sfiatati: gli organizzatori hanno voluto propinarci il brivido di un’emergenza da bombardamento. Beati i costruttori di pace che si danno a questo genere di costruzioni!
Due ore di riposo, poi via libera verso la villeggiatura, riservata però a chi ha firmato l’impegnativa di esonerare la beatifica istituzione da qualsiasi risarcimento in caso di decesso, ferite, mutilazioni, modifiche varie ed eventuali nel corpo e nello spirito.
Zitti zitti, in fila indiana, un violino davanti e uno di dietro, a Spalato siamo in duecento con l’aureola della beatitudine. Ci guida il nostro maestro di sortite antiraid, una specie di Che Guevara, come sarebbe se fosse andato avanti negli anni, ma soprattutto uno sportivo consunto da scatenati girotondi nelle notti senza luna e da grandinate di pestoni sulle mani a opera dei tanti “beati” in marcia fra le nuvole.
La hit-parade dei nostri vessilli di pace fa pendant con gli stendardi che ci salutano, o così pare, dai motoscafi e dagli yacht ancorati nella rada.
I passanti camminano nel sole, prendono distrattamente i nostri volantini che invitano a flemmatiche convivenze. Bar e negozi aperti, gelati, coca cola, mercato verde-rosa di frutta e ortaggi. Una delusione. Dopo le manovre in parrocchia ci aspettava almeno un po’ di guerra. Va bene, una certa gioia di vivere non guasta; qualche giorno fa i serbi hanno bombardato Dubrovnik...
Fine prima parte

Prosegue qui

Thursday, July 7, 2011

Dal nostro inviato speciale !

Messaggero Veneto 28/06/11
FIAMME SUL CONFINE... 20 ANNI DOPO
Jugoslavia in frantumi e alla Casa Rossa fu una battaglia lampo.
Il 25 giugno 1991 la Slovenia e la Croazia proclamano l’indipendenza
Il 28 i tank di Belgrado vengono respinti a Nuova Gorizia
di Pietro Oleotto


All’inizio del giugno di vent’anni fa, la Jugo, a Gorizia, cominciava con una lunga fila per andare a fare benzina, la Croazia era solo il mare di Istria e Dalmazia e Ratko Mladic – che nel ’95 sarebbe diventato il “boia di Srebrenica” – un generale dell’Armata Popolare. Quell’Armata che in quei giorni fu spedita in assetto da guerra, sfoderando i cingoli dei tank, a presidiare i confini della "Repubblica socialista federale" la cui unità mostrava crepe evidenti. Qui, da questa parte, si notavano a stento, anche se si sapeva che non era più il paese descritto con una famosa frase dal padre fondatore: «Noi in Jugoslavia dobbiamo dimostrare che non esistono maggioranze e minoranza». «Mi moramo u Jugoslaviji pokazati da ne može biti manjine i vecine», come aveva declamato il maresciallo Josip Broz Tito, scomparso undici anni prima.
Nel 1991 non solo esistevano maggioranze e minoranze; c’era la forza centrifuga dei nazionalismi azionata dalla Serbia di Milosevic che avrebbe portato prima alla disgregazione dello Stato, poi agli orrori della guerra civile. Così il 25 giugno Slovenia e Croazia proclamarono la propria indipendenza e il giorno 28 bisognava essere oltre confine, da italiani, per testimoniare cosa succedeva alle porte di casa. Cosa ci facevano quei carri armati tra la gente, qualche metro dopo il valico internazionale della Casa Rossa? “Di là” si combatteva o il passaggio storico era pacifico? Alle cinque del pomeriggio si diceva che sulla strada statale che collega Lubiana con Nuova Gorizia sarebbero passati i rinforzi dell’esercito federale per raggiungere gli avamposti piazzati sul confine: lasciata la redazione isontina del Messaggero Veneto, la Mercedes del nostro fotoreporter, Nello Visintin, una mezz’ora dopo era già ad Aidussina, dove il segnale italiano del telefono veicolare (una cornetta agganciata a un’enorme scatola nera di metallo, i cellulari erano una rarità) si perdeva inesorabilmente. Bisognava fermarsi, ma non per l’assenza di comunicazioni con il giornale, dove il capo servizio Vincenzo Compagnone coordinava il lavoro tenendo i contatti con Udine, bensì perchè sulla striscia d’asfalto del ponte sul torrente Hubel la gente del paese aveva piazzato i mezzi pesanti in proprio possesso, a spina di pesce, per sbarrare la strada ai cingolati comandati da Belgrado.
Era il primo segnale che c’era una regia slovena per impedire l’espandersi a macchia d’olio di un eventuale conflitto attraverso l’opera della milizia territoriale, la Teritorialna Obramba. Dieci minuti, venti, trenta, un’ora. Poi qualcuno si avvicina: «Italiano, torna a Nuova Gorizia, là sta succedendo qualcosa». La statale è deserta, il cambio automatico della macchina scala marce lunghe per assecondare la nostra volata di ritorno verso il confine: Crnice, Vitovlje, Sempas.
A circa un chilometro da Casa Rossa un posto di blocco: documenti. È la polizia slovena. «Volete passare? A vostro rischio». Rischio? Di cosa? Parcheggiamo e cominciamo a correre verso il valico lungo il rettilineo che gli sta di fronte, fino a quando non sentiamo un’esplosione fortissima. Siamo a pochi metri dai distributori Petrol, deserti, mentre dal carro armato al centro della strada si alza una colonna di fuoco. La Nikon reflex di Visintin scatta a ripetizione, la mia tasca gonfia di rullini di pellicola (altro che digitale!), si svuota in un amen: sono steso a pancia in giù sotto una vecchia Zastava 750 – la 600 Fiat “potenziata” fatta a Kragujevac –, quando sento un rumore metallico alla destra della mia testa.
A un miliziano sloveno è appena caduto un caricatore da kalashnikov: lo raccolgo e lo consegno prontamente. I territoriali hanno attaccato a colpi di bazooka i tank dell’Armata Popolare, presa di sorpresa: quattro i morti in quell’inferno. Le lingue di fuoco si alzano alte dalla torretta di comando e ipnotizzano i soldati che vengono catturati in massa con qualche raffica di mitra. Dopo una manciata di minuti siamo infatti in un grande cortile a poche centinaia di metri dal confine, dove assistiamo a una scena da film: i militari dell’esercito sono disarmati, in piedi e in fila, con le mani dietro la nuca.
L’attacco sloveno è riuscito, Casa Rossa è sotto controllo e la gente comincia a uscire dalle case. E mentre i prigionieri sfilano di corsa al comando dei vincitori si sente il rumore dei sassi lanciati contro i loro elmetti che nascondono facce impaurite e tratti somatici macedoni, kosovari, montenegrini. Era la politica dell’Armata: mai fare il soldato a casa. Con il pestare degli anfibi sull’asfalto e le accelerate dei camion che caricano la paura e lo smarrimento di quei ragazzi – per portarli nella caserma di Deskle sulla strada per Canale – cala anche la tensione.
Riprendiamo la macchina, comunichiamo alla redazione che abbiamo delle foto da pubblicare, raccontiamo attraverso il telefono veicolare la battaglia alle porte di Gorizia. E cerchiamo una via d’uscita attraverso l’altro valico internazionale, quello di Sant’Andrea, quello dell’autostrada. Ma al secondo incrocio dopo l’abitato di San Pietro (e l’ennesimo posto di blocco) le vie tornano deserte: in lontananza il cannone di un tank federale segue la nostra Mercedes nel suo tragitto e dopo lo svincolo è chiaro che siamo in trappola.
Le sbarre del confine jugoslavo sono abbassate, impossibile raggiungere l’Italia dove la nostra polizia è in presidio, armata, dietro dei sacchi di sabbia. Ma quando giriamo la macchina, dopo qualche centinaio di metri in senso inverso, ci accorgiamo di non essere più soli: dalla vegetazione esce una sentinella mimetizzata, urla qualcosa in serbo; Visintin piazza una retromarcia che copre il rumore di una raffica in aria e nel momento del “rinculo” dal finestrino aperto spunta una canna. Catturati. Hanno la stella rossa sul copricapo, ci credono delle spie pronte a rivelare le loro posizioni agli sloveni della Territoriale. Sono dell’Armata federale, sono in guerra, una guerra civile.
Fuori dalla macchina la perquisizione: spariscono i rullini, resistono solo quelli nascosti sotto i tappetini della vettura. Mezz’ora dopo – bontà loro – ci alzano la sbarra di qualche centimetro, tanto che l’antenna piazzata al centro del tetto fatica a passare. Ci è andata bene, possiamo raccontare cosa sta succedendo, con parole e immagini. Neanche un graffio, mica come quel povero soldato scappato oltre il confine durante l’attacco e colpito a un gluteo prima di essere accolto in Italia.
Il giorno dopo andai in ospedale a sentirlo. Giovanissimo, biondo, occhi azzurri era un croato: «Faccio il contadino», mi disse quasi volesse far felice la memoria di Stjepan Radic. «Ci avevano detto che dovevamo difendere la nostra terra da voi italiani». Era cominciato il decennio delle bugie. Curato, fu rispedito a casa, nell’entroterra di Zara. Chissà se per lui fu l’ultima divisa vestita. Se vide l’Operazione tempesta, la terribile Operacija oluja del generale Ante Gotovina, o se raggiunse Metkovic per sostenere l’identità croata dell’Erzegovina. Storie tormentate di quest’ultimi vent’anni nei Balcani, quasi un effetto domino da quel 28 giugno 1991, quando fu difesa l’indipendenza della Slovenia attraverso delle battaglie lampo ai valichi, come quello di Casa Rossa. Là dove adesso non c’è più un confine, dove si paga in euro, dove è Europa ed è tutto diverso. Meno il prezzo della benzina, sempre più basso: ma almeno non si fa più la coda.


Grazie Pietro... non avremo mai abbastanza parole per dire quanto sei favola ! Grazie dal profondo del nostro cuore .. e dire che tutto il nostro amore per te è iniziato con una litigata !!!!

Pietro.. una favola senza fine
Dedicato a Pietro
I nostri cari motomuloni !
Luca e Pietro a Ljubljana

Saturday, July 2, 2011

Il giorno di San Vito visto da Antonio

Antonio ci regala delle pagine fantastiche !


San Vito è venerato come santo martire dalla Chiesa cattolica ed è un Santo molto importante anche per la Chiesa ortodossa serba e quella bulgara; la sua ricorrenza è osservata nel giorno del 15 giugno del Calendario gregoriano che corrisponde al 28 giugno del Calendario giuliano.

L'Assemblea del popolo serbo del Kosovo e Metohija, come annunciato da Slobodan Samardzic, ha visto la luce il 28 giugno, una data simbolica e ricorrente
nell'intera storia di sangue e disgrazie dei Balcani: il giorno di San Vito, controverso anniversario della battaglia di Kosovo Polje, quando il principe
Lazar venne annientato assieme ai suoi uomini sulla piana dei merli (Kos-merlo) dai turco-ottomani. Il 28 giugno 1389 (Vidovdan) è tema dei grandi poemi
dell'epica serba cui hanno fatto seguito, fatalità del destino, anche le tragedie balcaniche ed europee. 28 giugno 1914: assassinio di Francesco Ferdinando;
28 giugno 1919: Trattato di Versailles; 28 giugno 1989: durante il 600° anniversario dalla battaglia di Kosovo Polje Milosevic tiene il discorso di esaltazione della nazione serba. Il giorno di San Vito, divenuto il topos della definizione identitaria serba, ritrae e raffigura il nazionalismo più crudo - un'intollerabile piaga che soverchia le ingenue ambizioni europee. Vidovdan, a dispetto delle forzate tensioni europeiste, riecheggia nelle menti e nelle coscienze alla stregua di un pericoloso ideale ultranazionalistico, epurato dal mito religioso, scientemente sottratto alla memoria collettiva al solo scopo di dare maggior spazio alla strumentalizzazione e alla retorica.

Il Vidovdan è la ricorrenza religiosa in cui ricorre la memoria del martirio di San Vito osservato dalla Chiesa ortodossa serba e da quella bulgara nel giorno del 15 giugno del Calendario giuliano e che corrisponde al nostro 28 giugno del Calendario gregoriano. In Bulgaria è chiamato Vidovden o Vidov Den e la sua particolarità è ben conosciuta soprattutto nella parte occidentale del paese.


Il Vidovdan è anche data di una certa importanza storica:

il 28 giugno 1389, la Serbia combatte contro l'Impero Ottomano nella Battaglia di Kosovo Polje.
il 28 giugno 1914, l' assassinio dell'Arciduca Francesco Ferdinando d'Austria erede al trono dell'Impero Austro-Ungarico e di sua moglie la Duchessa Sofia
a Sarajevo è la miccia che farà scoppiare la prima guerra mondiale.
il 28 giugno 1919, viene firmato il Trattato di Versailles mettendo fine alla prima guerra mondiale.
il 28 giugno 1921, il Re serbo Alessandro I di Jugoslavia promulga la Costituzione del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, passata alla storia come la
Costituzione del Vidovdan (Vidovdanski ustav.)
il 28 giugno 1948, il Cominform pubblica, su iniziativa dei delegati del suo Soviet: Shdanov, Malenkov e Suslov, la "Risoluzione sullo stato della Lega dei
Comunisti Jugoslavi" condannandone la loro "laedership" - ciò comportò la rottura finale tra Unione Sovietica e Jugoslavia.
il 28 giugno 1989, — nel 600° anniversario della Battaglia di Kosovo Polje — il leader serbo Slobodan Miloševic tiene il famoso discorso sull'origine serba
del luogo dove è stata combattuta la storica battaglia.
il 28 giugno 1990, un progetto di revisione della Costituzione Croata, che elimina il riferimento ai Serbi nella costituenda nazione di Croazia, viene
rivelato dal Presidente croato Franjo Tudman.
il 28 giugno 2001, il vecchio leader Miloševic viene trasferito in stato di arresto presso l'Aja per affrontare il processo per crimini contro l'umanità.
(Morirà in prigione.)
il 28 giugno 2006, il Montenegro viene proclamato 192° Stato membro delle Nazioni Unite.

In questo video potete vedere Gordana Lazarevic nelle enclavi serbe in Kosovo. Le enclavi sono veri e propri centri di concentramento in cui i serbi vivono accerchiati dal filo spinato e necessitano di scorta armata per andare a scuola o all'ospedale. C'è anche chi dice che queste cose ce le inventiamo e allora noi le abbiamo documentate di persona con il documentario : Kosovo me fat


Kud god da krenem
Tebi se vracam ponovo.
Ko da mi otme
Iz moje duše Kosovo
Wherever I go
I will be back, you know.
Who can rip away
Kosovo from my soul

Vidovdan visto da Francy
Il nostro post del 2009
Oj Kosovo, Kosovo

TRASLOCO

  In foto la statua di Ivan Mestrovic, lo scultore croato che ama lavorare per la Serbia Ci siamo trasferiti in 5 altri siti Uno si chiama  ...